di Giuseppe Gaetano, editor in chief
Il 2025 è cominciato, e il decreto attuativo non è arrivato.
Il testo interministeriale firmato Mef e Mimit – che più che l’obbligo di copertura catastrofale per le imprese disciplina quello a contrarre delle compagnie – è da novembre sulla scrivania del Consiglio di Stato il quale (tra le altre difficoltà evidenziate da oltre 12 mesi di focus e inchieste su PLTV) nota che il documento contempla una deroga alla soglia dello scoperto del 15% per le sole grandi imprese, bisognose come le compagnie di sostenibilità e flessibilità per assicurare i tanti asset ubicati in differenti zone geografiche della penisola. In teoria, niente di insormontabile: basterà dar conto delle sopraggiunte oggettive necessità della deroga, alla luce dell’imperituro cambiamento climatico che ha provocato ingenti perdite anche nel 2024. Modificare direttamente la norma primaria sulla franchigia massima, infatti, vorrebbe dire allungare ancora i tempi già saltati della legge promulgata un anno fa, la cui messa a terra è stata prorogata prima all’estate, poi a ottobre, quindi a gennaio e al momento a fine marzo 2025.
A meno di non accorciare gli attuali 90 giorni di periodo transitorio, concessi per adeguarsi alle disposizioni dalla pubblicazione in GU, è certo che nei prossimi emendamenti al Milleproroghe la data di entrata in vigore venga nuovamente posticipata, probabilmente di un mese, guadagnando così un altro paio di settimane per recepire le osservazioni dei giudici.
Alcuni titoli di inizio anno rilanciati da vari media – “Catastrofi naturali, 73mila aziende italiane a rischio” – facevano intendere che si trattasse di quelle site in aree a rischio sismico/idrogeologico. Leggendo il comunicato della ricerca Cerved, si capiva invece che l’esposizione annunciata non era riferita agli eventi naturali estremi ma al credito, a causa degli elevati costi di investimento necessari per raggiungere l’obiettivo emissioni zero al 2050. Il titolo giusto sarebbe stato “Inquinamento ambientale, oneri insostenibili per 73mila aziende“, che è tutt’altro affare. Ancor prima c’è la Corporate Sustainability Due Diligence Directive dell’Ue, da recepire entro due anni, che riguarda anche i risarcimenti all’ecosistema offeso.
Questo ci fa capire però che se le attività più impattate dall’eco-transizione non hanno liquidi per decarbonizzarsi, forse non ne hanno neanche per assicurarsi. E che comunque l’assicurazione, senza prevenzione, risarcirà in molti casi tutte o parte delle perdite di chi stipulerà una polizza, ma non risolverà il problema a monte per cui è stata votata la partnership pubblico/privato – ovvero la resilienza dell’intera economia nazionale ai fenomeni atmosferici sempre più frequenti e violenti – che continueranno a imperversare sulla penisola, costringendoci a un intervento riparatore ex post a vita.
Intervento che, inevitabilmente, diventerà a sua volta sempre più costoso per la clientela. Ammesso e non concesso che sia possibile adottare un sistema produttivo basato esclusivamente su energie rinnovabili, questo aiuterà a frenare i mutamenti climatici – e calmierare i premi dei prodotti – solo se tutte, ma proprio tutte le aziende lo adotteranno, incluse quelle più disinteressate perché ubicate in zone ritenute sicure. La singola realtà virtuosa potrà ottenere semmai un piccolo sconto su prestiti e polizze, entrando nel novero dei clienti green in portafoglio e dunque riflettendosi positivamente sui bilanci di sostenibilità dei player; ma se l’investimento in processi ecologici non sarà di massa, non sposterà di molto l’esposizione dei suoi stabilimenti alle intemperie di ogni tipo – che dipende soprattutto dal territorio dov’è ubicata e dalla sua messa in sicurezza – e quindi alla sua bancabilità e assicurabilità.
Le imprese dovrebbero quindi prima provvedere a diventare amiche dell’ambiente, e a coniugare sostenibilità e competitività senza mettere in crisi la propria stabilità finanziaria, e poi semmai ad assicurarsi.
Così come – prima di accendere l’assicurazione – spetterebbe agli enti locali mettere in sicurezza i territori, realizzare opere di manutenzione e sburocratizzare le pratiche dalla stratificazione legislativa (l’Emilia Romagna avrebbe investito solo il 10% dei fondi stanziati dal governo per contrastare il dissesto): questo è il lavoro preventivo di cui c’è bisogno, per mitigare rischi e risarcimenti, prima di decretare la polizza obbligatoria. Ne sono convinti diversi esponenti di maggioranza e opposizione.
In parlamento, infatti, non mancano rappresentanti di differenti schieramenti a storcere il naso davanti alla legge. Secondo alcuni addirittura i contribuenti dovrebbero farsi carico dei ristori alle vittime dei disastri, perché a loro dire le compagnie spesso farebbero storie per aprire la borsa. Certa politica, prima di parlare, dovrebbe a sua colta confrontarsi con le migliaia di cittadini terremotati e imprese mai riaperte sparse in Italia, che ancor aspettano un tetto sotto cui poter ricominciare.
I fondi del Pnrr, ammesso che si riesca a sfruttarli appieno, da soli non bastano e significa vivere fuori dalla realtà pretendere di accollare cura e difesa dell’habitat rurale e urbano ad amministrazioni comunali, provinciali, regionali e nazionali, ingolfate da scontri di competenze tra apparati istituzionali e prive di risorse e skill professionali ad hoc.
Si tratta delle stesse PA che – ad esempio – tappando le condutture colabrodo, risolverebbero la siccità e la crisi idrica che nel 2025 ancora costringono diverse città siciliane a ricevere l’acqua di notte una volta a settimana: un’Isola dove in molte tratte ferroviarie si viaggia a binario unico non elettrificato, ma su cui si sta per costruire un gigantesco Ponte con la penisola. La verità è che per approntare questa rete di protezione (fatta di costante monitoraggio e rinforzo degli argini dei fiumi, pulitura di canali di scolo, allestimento di reti protettive su costoni di roccia, costruzione di vasche di decantazione ed edifici in elevata classe antisismica…) l’esecutivo Meloni non ha i soldi: proprio per questo è ricorso all’imposizione della copertura.
In un mondo ideale l’assicurazione dovrebbe costituire un paracadute, non la soluzione a un dramma globale; dovrebbe essere un’opportunità, un completamento dell’azione principale, volta a smorzare l’impatto meteo straordinario. Nel nostro mondo, l’augurio è che non occorra un ulteriore disastro per accelerare la messa a terra di un provvedimento che rappresenta comunque un passo iniziale decisivo per incrementare la resilienza della nostra industria così in pericolo.
In realtà – in ottica di ridurre il succitato rischio finanziario della transizione energetica delle Pmi – non tutti gli attori hanno chiaro che le compagnie danni potrebbero giocare anche un ruolo abilitante, visto che investono sui mercati circa 1.000 miliardi di euro di riserve tecniche. Come? Proteggendo gli stanziamenti diretti ad accelerare la trasformazione verde, canalizzando – in quanto investitori istituzionali di lungo termine – ingenti risorse verso investimenti sostenibili e, da ultimo, offrendo servizi che integrano i criteri ESG e incentivano comportamenti responsabili. Com’è ovvio, i contratti non sono gratuiti: il costo della credit protection rappresenta il prezzo del rischio e sarà tanto maggiore quanto più s’intende investire nel green, che sia economia circolare o motori a idrogeno o impianti eolici e fotovoltaici. Tuttavia, almeno le polizze catastrofali potrebbero offrire premi più bassi in presenza di tali pratiche di mitigazione del pericolo.
Venendo dunque all’esposizione che interessa il decreto – quella verso i fenomeni atmosferici e non all’indebitamento delle aziende – Bankitalia stima perdite economiche in Europa per 44 miliardi di euro l’anno entro il 2100, col 35% delle nostre aziende manifatturiere potenzialmente esposto, seppure in misura molto diversa, a inondazioni, frane o alluvioni (senza contare i terremoti). Ispra ha calcolato una frequenza di 1.000 eventi l’anno, 100 dei quali colpirebbero in modo significativo pure reti stradali e case, escluse momentaneamente dalla norma. In Francia, Germania, Austria e Spagna sono in vigore da tempo obblighi di copertura in questo senso, anche per le abitazioni private e per un “carnet” più ampio di potenziali catastrofi.
Per il terzo anno consecutivo il cambiamento climatico è risultato la più grande minaccia percepita dagli italiani, secondo il Future Risks Report di Axa/Ipsos, con ripercussioni dirette sulla vita quotidiana. L’indagine illustra un crescente senso di vulnerabilità – superiore perfino alla cyber security e all’instabilità geopolitica – ma anche una rinnovata fiducia nella protection assicurativa, giudicata essenziale.
“Il 2024 è stato un anno che ha nuovamente messo in evidenza la crisi climatica in Italia – ha dichiarato Thomas Wilde, Ceo Munich Re Italia, presentando i risultati del NatCatService -. Dalle alluvioni alle grandinate, dalle ondate di calore alle raffiche di vento: sia pur non raggiungendo i valori di danni assicurati del 2023, hanno avuto un impatto significativo sulle economie locali, ma anche sul panorama assicurativo globale. Bisogna rafforzare l’impegno verso soluzioni innovative non solo per mitigare i rischi, ma anche per favorire uno sviluppo sostenibile che protegga le generazioni future”. A livello mondiale, gli eventi metereologici estremi sono stati responsabili del 93% delle perdite complessive e del 97% di quelle assicurate.
Tutte le nostre maggiori compagnie hanno già lanciato le loro polizze da mesi; inclusa Sace, in campo con un suo prodotto e chiamata a riassicurare parte dei rischi assunti dai player in convenzione con ANIA, a condizioni di mercato e dietro garanzia dello Stato a prima richiesta e senza regresso, con una copertura fino al 50%. L’allegato non è secondario e regolerà diritti e doveri di riassicuratori e cedenti. Forse sarà possibile rivedere il limite di 5 miliardi di euro previsto per il 2024, e variabile nel biennio successivo, dovendo essere logicamente aggiornato al 2025. Purtroppo, la recrudescenza catastrofale di fine anno non è bastata ad accelerare l’emanazione delle linee guida operative della normativa.
Vada come vada, almeno nella sua prima emanazione il decreto risulterà per forza monco. Lo pseudo “obbligo” – per alleggerire il peso su player e clienti – nella bozza circolata ha finito per riguardare solo gli immobili produttivi, restringere la misura ai soli player già operativi in questo mercato, negoziare il danno indennizzabile per i grandi valori, limitare l’emissione di nuove polizze al raggiungimento della loro prestabilita capacità sottoscrittiva. Ma non è facile quantificare la reale esposizione delle compagnie finché non usciranno le linee operative. Soprattutto non può considerarsi cogente una norma la cui violazione, per gli imprenditori, comporta – nella versione più coercitiva – il semplice decadimento del diritto a sovvenzioni o agevolazioni statali, se per caso ne godevano; mentre l’elusione, per le compagnie, è punita con multe sostanziose. Per garantire gli indennizzi occorre una mutualità, che per adesso appare una chimera.
La nostra testata giornalistica, in qualità di media partner dell’annuale ReInsurance Day di Milano, ha provato ad avanzare alcune soluzioni alla questione cat nat; lo stesso hanno fatto IVASS e ANIA, che siedono al tavolo interministeriale.
Il segretario generale IVASS Stefano De Polis – intervenuto a fine 2024 al seminario su ‘Gli orizzonti del diritto della finanza etica e sostenibile’ all’Università di Padova – ha ribadito che il decreto “è in fase di finalizzazione” ma che comunque solo una percentuale ridotta dei premi dei rami danni è tuttoggi riferibile alla protection contro i rischi fisici, e per i soliti motivi: diffidenza verso i risarcimenti, scarsa conoscenza delle soluzioni, complessità contrattuali, percezione di prezzi elevati, rispetto a un rischio sottovalutato; aspettativa di un intervento statale, che in realtà non sta scritto da nessuna parte. D’altro canto, pure per le compagnie non è tutto oro ciò che luccica e per più ragioni: eventi rari ma potenzialmente portatori di perdite concentrate e difficilmente quantificabili; modellazione dei rischi estremi complessa, in un quadro climatico perennemente in fieri; ridotta mutualità e situazioni di selezione avversa potrebbero disincentivare il mercato e incrementare i prezzi, innescando un circolo vizioso con la domanda.
C’è pure un’altra importante iniziativa legislativa in campo: il Ddl quadro Ricostruzione post calamità che, tra l’altro, delega all’esecutivo la definizione di schemi di indennizzo a persone fisiche e imprese per danni al patrimonio edilizio – anche abitativo – cagionati dalle calamità: approvato a novembre in prima lettura alla Camera, è atteso il secondo passaggio in Senato.
Lorenzo Vismara (Gen Re): “L’Impatto del Decreto Nat Cat si vedrà tra fine 2025 e inizio 2026”