di Giuseppe Gaetano, chief editor
Il settore finanziario è il sesto a livello globale per investimenti in startup innovative con 15 miliardi e mezzo nel 2022, di cui oltre 500 milioni in Italia, +33% sul 2021.
Nel nostro Paese l’Intelligenza artificiale genera 110 milioni di valore annuo. Solo il mercato dei big data applicato alla sanità ne vale 135 e si avvia a superare i 200 nel 2025. Sono alcuni dei numeri usciti fuori dagli ultimi Stati Generali dell’IA. Nel settore assicurativo ormai la tecnologia digitale non si usa più solo per stabilire premi, escogitare prodotti e predire i rischi ma interessa tutta la catena del valore. L’Ivass ha calcolato che nel 2022 il 43% delle compagnie è ricorso a una qualche forma di IA, ma ci sono anche altre nuove tecnologie: l’1% adotta le blockchain in produzione, il 37% il cloud computing, il 16% l’IoT, il 27% le informazioni dei big data e la stessa percentuale utilizza almeno un algoritmo di machine learning nei processi con impatto diretto sulla clientela. Quest’ultimo, in particolare, macina una quota di mercato pari al 78% nel comparto danni e al 25% nel vita.
IA e machine learning, inoltre, sono strumenti a cui banche e credit management si rivolgono sempre più spesso per gestire le sofferenze ma anche per prevenirle impedendogli di tramutarsi in crediti incagliati o deteriorati: prevedere il debito e valorizzare commerciabilità e liquidità dell’asset finanziato. Tuttavia questa tecnologia è utilizzata soprattutto per ottimizzare i processi interni e prevenire eventuali perdite. Algoritmi di machine learning sono adoperati nella prevenzione delle frodi tramite modelli predittivi, efficientamento nella gestione dei sinistri Rc auto, identificazione delle intenzioni di abbandono dei clienti e pricing al rinnovo della polizza (cluster di rischio e coefficienti di tariffa). Nell’underwriting aiutano per il riconoscimento facciale del cliente in caso di contatto a distanza e, nelle polizze salute, per la previsione delle malattie. Anche se l’Istituto rileva che solo una compagnia indica di aver definito una policy specifica, la maggior parte sottopone comunque gli algoritmi a processi di validazione specifici o auditing, e si rivolgono a una supervisione umana per verificare i risultati e prendere la decisione finale sul processo.
In complesso, l’Italia resta indietro rispetto alle sorelle delle grandi economie straniere. Ad oggi solo il 18% delle compagnie possiede capacità tecniche, cultura e pratiche aziendali in grado di sfruttare davvero al massimo la potenza di tali strumenti nel creare prodotti a misura di cliente, incrociando l’enorme mole di informazioni che sono in grado di elaborare per evitare sovrapprezzi di premi e sottostime di rischi. Così come per identificare aree in cui ridurre le voci di spesa, migliorando la competitività sul mercato. A livello globale invece, secondo l’ultimo report del Capgemini Research Institute, il 40% delle compagnie attualmente utilizza un approccio data driven – basato cioè su raccolta e analisi di gigantesche quantità di dati – per migliorare le operazioni, fornire ai clienti un servizio sempre più personalizzato e accedere quindi a nuovi mercati; mentre il 43% ha modernizzato e potenziato i propri algoritmi per la gestione del rischio.
Ma, lato consumer, questa estrema innovazione e automazione dei processi piace davvero su voci delicate come “casa”, “salute”, “risparmio” e “mobilità”? Se l’è chiesto il recente sondaggio di Deloitte “Innovazione e Assicurazioni. Una risposta concreta ai bisogni di cittadini e imprese”. Entrambi continuano in realtà ad avere bisogno di interlocutori di riferimento e canali fisici paralleli con cui confrontarsi, prima di sottoscrivere una polizza: l’80% di famiglie e imprese riconosce il ruolo dell’innovazione ma per meno del 25% ha portato i risultati attesi in termini di riduzione dei costi e qualità dei prodotti, a causa di aspettative troppo elevate e assenza sul mercato di soluzioni idonee o facilmente integrabili. Anche per le spese quotidiane, ad esempio, l’80% degli italiani preferisce ancora acquistare nei negozi o in modalità ibrida anziché online (20%).
In ambito mobilità, circa il 90% vorrebbe ottimizzare le proprie spese per trasporti e spostamenti ma, a dispetto della tecnologia, solo l’11% ritiene che esistano già delle modalità valide per farlo. Il rapporto sostiene tra l’altro che solo il 20% dei cittadini ha attivato assicurazioni sanitarie integrative, evidentemente non tiene conto di quelle contemplate nei Ccnl, in ascesa come le polizze della previdenza complementare. Prezzo (51%) e qualità (35%) restano ad ogni modo i primi due criteri per le scelte d’acquisto di ogni genere di servizio. Oltre il 50% del campione si rivolgerebbe a un player del mondo bancario o assicurativo ma – a parità di prezzo e qualità – addirittura il 95% dei consumatori e il 73% delle aziende è disposto a rivolgersi a operatori “non tradizionali” in ambito immobiliare, sanitario e finanziario.
Questa concorrenza – unita ai costi di produzione impennati dai rincari energetici e al minor potere di acquisto dei clienti – spaventa le imprese, che avvertono il bisogno di una consulenza che non sia esclusivamente online. Il 60% ha bisogno di capitali e/o finanziamenti per gestire la propria attività, ma – secondo Deloitte – solo il 22% stipula polizze per proteggersi dai rischi – specie i più gravi, quelli catastrofali legati a clima e cyber crime – e meno del 10% domanda servizi di consulenza amministrativa e per il funzionamento di impresa, restando guidate da fatalismo e falso senso di protezione. Non è solo questione di possibilità economiche o scarsa fiducia e resistenza culturale, come emerso da una recente indagine di EY e IIA sul comparto insurtech: spesso alcune informazioni particolari, riguardanti clausole e servizi, si spiegano e si apprendono indubbiamente meglio di persona, in “presenza”.
Machine Learning, IoT, Big Data: una Finestra sull’Insurtech 2023