di Giuseppe Gaetano, chief editor
Tassi e inflazione rischiano davvero di fermare l’economia e stringere il rubinetto del credito durante il 2023?
Sono i due aghi della bilancia del mercato: da una parte altri 50 punti base al costo del denaro; come effetto, dall’altra, un decremento dell’inflazione che chiuderebbe il secondo semestre dell’anno tra il 5,5 e il 6,5%. A quel punto, anche i tassi medi dei crediti bancari medi dovrebbero abbassarsi. Visto che i salari non tengono il passo dei prezzi, per frenare l’inflazione la Bce ha ridotto infatti il potere d’acquisto delle famiglie, frenando così la domanda di credito da aziende e famiglie e aumentandone i costi. Col ritorno della Cina nel panorama del commercio mondiale, però, l’inflazione potrebbe rimanere più persistente di quanto atteso dagli investitori, dunque per apprezzare una politica accomodante della Bce potrebbero volerci ancora mesi. Di certo finché l’inflazione resterà alta, resteranno tali anche i tassi di interesse, aumenterà la selezione all’entrata per accedere a un prestito e per il cliente sarà ineludibile negoziare un “cap”. Un’eventuale recessione che s’inserisse in tale contesto potrà solo rendere più difficile il rifinanziamento e aggravare il rischio di credit crunch e default aziendali. Per i mutui dipende dall’evoluzione di questo scenario la scelta, al netto delle commissioni, tra coprirsi con un tasso fisso o scommettere sul variabile.
Lato clienti, è un dato che solo la rete “Riparto” di Ministero del Lavoro e Acli in quasi 2 anni di attività oltre 2mila consumatori e Pmi si siano rivolti : gli sportelli hanno rimesso in moto 2.467 sovra indebitati, di cui 2.210 persone e 257 imprese. È in momenti difficili come questi che le Bcc, artigiane del credito, sono chiamate ad essere più vicino al territorio rispetto ai grandi gruppi multinazionali. Anche un’emissione di finanziamenti indebolita, tuttavia, non deve spaventare le banche italiane: “I tassi sui prestiti più elevati continueranno a sostenere materialmente il margine di interesse, compensando la minore crescita dei prestiti, gli accantonamenti moderatamente più elevati per perdite sui prestiti e il maggior costo del finanziamento all’ingrosso” scrive, da ultimo, Moody’s a proposito dell’ulteriore miglioramento della performance finanziaria pronosticata nel 2023, in particolare per i primi 4 istituti: Intesa Sanpaolo, UniCredit, Banco Bpm e Bper Banca (da sole oltre il 50% del totale attivo del sistema bancario). L’agenzia di rating vede solo un leggero aumento del costo del rischio, legato all’impatto di inflazione e stagnazione sui conti di famiglie e imprese.
Il rialzo dei tassi, inoltre, sembra favorire il factoring perché “aumenta lo sconto a cui acquistiamo crediti, sale il costo opportunità per le aziende di non cedere il credito e quindi per loro diventa più conveniente smobilizzare i crediti” ha detto di recente al Sole24Ore il Ceo di Bff Bank, Massimiliano Belingheri. Anche fronte titoli, per gli analisti di Intermonte al momento non ci sono preoccupazioni per le banche grazie a un rapporto prestiti/depositi del 78% e crediti deteriorati lordi/impieghi ben sotto il 5% più altri “fattori che rendono il settore più resiliente a eventuali shock esogeni” potenzialmente legati alla bancarotta della Silicon Valley Bank, in crisi per la riduzione dei depositi bancari non remunerati. Raccolta e utilizzo del risparmio hanno fatto troppo affidamento su quell’equilibrio tassi-inflazione che si è rotto l’anno scorso, svalutando il rendimento dei vecchi titoli e prosciugando i liquidi. Il sell-off in Usa ha già innescato, comunque, le prime vendite sui nostri listini. Il rialzo dei tassi, in effetti, può anche far male generando perdite sul portafoglio titoli: le analogie sono non tanto con il crack Lehman Brothers quanto col fondo Blackstone e, in Italia, con il dossier sul coefficente di solvibilità di Eurovita. La quantità di Btp e altri titoli di Stato nelle casse delle banche ha ridestato l’attenzione dei mercati, tuttavia i grandi gruppi italiani possono contare su un’erogazione del credito molto più diversificata rispetto al collega statunitense.