di Fabio Picciolini, esperto consumerista
Punto di partenza: il sistema bancario ha sbagliato a non ascoltare BCE, ministero dell’Economia e delle Finanze e Banca d’Italia sull’adeguamento dei tassi passivi, così da attenuare il maggiore costo di indebitamento derivante dall’aumento dei tassi di interesse dal luglio 2022; non aumentare il tasso dei mutui più di quanto previsto dagli aumenti di Francoforte; abolire gli aumenti “per giustificato motivo” effettuati all’epoca dei tassi zero e sotto zero; e infine non ampliare a dismisura appunto il differenziale tra tassi attivi e passivi, disdicendo così l’art. 118.4 del TUB che impone che “le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria riguardino contestualmente sia i tassi debitori che quelli creditori, e si applichino con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente”,
Tecnicamente nessuno può dire che si tratti di un’azione di cartello anticoncorrenziale – per cui difficilmente l’Antitrust potrà intervenire, salvo il difficilmente comprovabile “abuso di posizione dominante” – ma socialmente è quanto avvenuto. Il provvedimento del governo, più politico che economico, di tassare gli extra-profitti da remunerazione degli interessi (tecnicamente windfall tax) – senza aver chiesto il parere obbligatorio, pur non vincolante della Bce – è a dir poco singolare non tenendo conto dei fallimenti precedenti (extragettito imprese energetiche) bocciati dalla Corte Costituzionale, e rischia di essere controproducente per l’economia italiana e la clientela bancaria.
Il decreto prevede: a) di tassare la differenza tra interessi attivi e passivi nei bilanci 2021 e 2022 superiore al 5%; b) soglia che si alza al 10% nel differenziale 2022-2023; c) ammontare massimo 0,1% dell’attivo, orientativamente 3,3 miliardi; d) non deducibilità da Irap e imposta sui redditi; e) versamento entro giugno 2024.
La norma fa fare un salto indietro di circa 90 anni, quando la banca era un soggetto pubblico o incaricato di funzioni di interesse pubblico, anche se è ormai pacifico che svolga un’attività di impresa. La misura contempla infatti il pagamento di una tassa, ovvero un prelievo al quale dovrebbe corrispondere un servizio per i contribuenti (ad esempio contributo per la riduzione dei tassi dei mutui oppure fondi di garanzia); e non un’imposta, cioè un prelievo per sostenere la spesa pubblica in genere.
Il ricavato sarà invece destinato al fondo prima casa per i giovani under 36 che ad oggi, a fronte di una disponibilità complessiva di 480 milioni, ne ha impiegati 330, per cui ha in cassa ancora 150 milioni: non si vede dunque il motivo di un suo ulteriore rifinanziamento. Non solo, il decreto non prevede aiuti per gli attuali mutuatari.
Presentato come provvedimento di “equità fiscale”, di facile appeal su molti, è in realtà il tentativo di finanziare la riforma fiscale: scelta non possibile in quanto il prelievo sarà una tantum mentre il taglio delle tasse non può che essere pluriennale, e una misura una tantum non può essere utilizzata per coprire spese pluriennali. Il decreto interviene sugli argomenti più diversi senza ascoltare il Presidente della Repubblica, che aveva chiesto la riduzione e l’unicità di argomenti nella decretazione d’urgenza, e soprattutto introduce una tassa retroattiva che pregiudica bilanci già depositati, utili distribuiti, investimenti effettuati e programmati colpendo solo una voce di bilancio senza valutare tutte le altre. Aspetti che possono porlo a rischio di incostituzionalità, come è avvenuto per gli extraprofitti energetici. Infine, la norma non rispetta lo Statuto del Contribuente che, invece, la stessa legge delega per la riforma fiscale vorrebbe rendere più ampio e maggiormente applicato.
La misura si rifletterà, pur marginalmente, sul patrimonio. La conseguenza sarà che, per ridurre l’esborso, le banche aumenteranno il costo di altri prodotti e servizi (ad esempio commissioni o canoni), attuando la cd. “traslazione dell’imposta”, che non incidono sul margine di interesse e ridurranno l’acquisto dei titoli di Stato, considerato che il loro rendimento rientra nel citato margine: il risultato sarà di ridurre l’erogazione di credito, con risultati negativi sull’economia maggiori dei vantaggi. Sono decisioni che un provvedimento economico dovrebbe sempre avere in considerazione.
Incomprensibile l’invarianza della tassa sia per l’istituto che distribuisce utili agli azionisti, sia per quello che rafforza il patrimonio con la finalità di offrire maggior credito a imprese e famiglie. Tale scelta avrà le conseguenze maggiori sulle piccole banche che non distribuiscono utili se non a fini sociali, non hanno la varietà di prodotti e di introiti dei grandi gruppi e il cui guadagno proviene soprattutto dal margine di profitto nei finanziamenti.
Un rischio possibile, su cui si sono divise le agenzie di rating, è l’impatto sul merito creditizio delle banche italiane: se avvenisse, significherebbe maggior costo per la raccolta e conseguentemente un aumento alle condizioni applicate alla clientela. Cosa significa la frase “…anche se operanti tramite stabile organizzazione nel territorio dello Stato”? Che sono tassate anche le banche estere operanti in Italia con stabile organizzazione? Perché solo loro allora, e non anche quelle digitali? Se, secondo l’interpretazione più diffusa, la norma riguardasse solo le banche italiane, aumenterebbe il “rischio Paese” e avvantaggerebbe le banche estere presenti in Italia.
La misura assunta ieri per le imprese energetiche, oggi per le banche, domani potrà colpire chissà quali altri settori (tassisti, balneari, chi vende pane, riso, ecc.) che stanno facendo extraprofitti senza preavviso e con le motivazioni più disparate. Si era provato a fare proposte percorribili senza creare un “armageddon”: non erano certo le uniche, ma almeno erano un’alternativa. Lo sviluppo della concorrenza è uno dei modi migliori per abbassare i costi e aumentare la qualità; il sistema bancario è certamente più concorrenziale che in passato, ma vanno intraprese nuove strade: ridurre per un periodo lo spread applicato, dedicare una parte degli utili a supportare la propria clientela, modificare il tetto Isee e gli importi previsti nella legge di bilancio per la trasformazione dei mutui immobiliari da tasso variabile a fisso, utilizzare le reti distributive per dare una consulenza ai clienti in difficoltà. Sono solo alcune delle possibili soluzioni.
La tassa dovrebbe essere sostituita da un’altra che tenesse conto anche degli altri aumenti “impropri”, sia dei costi sia degli investimenti; se restasse invariata, dovrebbe specificare a quale utile applicarsi: quello di gruppo, quello consolidato? Per salvaguardare le banche minori, le più colpite, potrebbe essere utile come in Spagna una soglia di esenzione legata al reddito imponibile o agli istituti sottoposti alla vigilanza della BCE (qui sorgerebbe il problema delle BCC che con la riforma e la creazione dei gruppi sono passati sotto tale vigilanza). La Spagna, peraltro, ha previsto un monitoraggio per evitare aumenti ingiustificati su altre voci. Ulteriore possibilità per ridurre l’esborso e non pesare sugli utenti bancari aumenti di costi potrebbe essere prevedere la deducibilità fiscale della tassa. Le osservazioni sarebbe ancora molte, ma essendo una scelta politica e non economica inutile avanzarle nella flebile speranza che il Parlamento, in un sussulto di volontà di dimostrare il proprio potere costituzionale di legiferare, sappia migliorare il decreto.
Un’ultima osservazione fuori contesto: gli introiti della tassa sugli extraprofitti sono circa gli stessi che lo Stato dovrà pagare per acquisire il 20% della rete TIM. Altro che operazione sociale per finanziare l’aiuto sui mutui ipotecari e ridurre le tasse!