di Giuseppe Gaetano, chief editor
Tra il 2017 e il 2022 i mutui sono cresciuti di oltre 50 miliardi di euro (+13,5%), con lo stock di erogazioni passato da 375 a 425 miliardi.
Un’ascesa costante e spalmata in tutto il quinquennio osservato da Fabi, che ha avuto il salto più consistente proprio l’anno scorso. Anche i prestiti personali e il credito al consumo sono cresciuti in 5 anni di 3,1 miliardi (+1,2%) arrivando a 256 miliardi. La dinamicità del settore emerge pure dal barometro Crif, che nel 2022 evidenza una crescita della domanda di prestiti del 18,9% con volumi superiori ai livelli pre Covid. Abbiamo già scritto su PLTV delle verosimili ripercussioni della stretta monetaria sul mercato 2023: rate più alte anche per i nuovi tassi fissi (il gap col variabile è sceso a gennaio sui 50 punti base), con richieste dei consumatori ed erogazioni delle banche frenate dal maggior costo dell’indebitamento. La contemporanea crescita dei finanziamenti fin qui registrata, non essendo dovuta a condizioni di mercato vantaggiose, è da addebitarsi alla crescente propensione degli italiani a rateizzare gli acquisti, alla richiesta di liquidità e alle spese per beni e servizi che hanno più che controbilanciato la riduzione di quelle personali.
Così i conti correnti: sono stati prosciugati di circa 18 miliardi in soli 4 mesi, da agosto a novembre 2022, non da investimenti che hanno rimesso in circolo la ricchezza ma dal caro-vita e della pressione fiscale che stanno erodendo depositi e potere di acquisto dei correntisti, forzati ad attingere alle riserve. Un fenomeno registrato anche da Confesercenti, che conta 41,5 miliardi di risparmi sacrificati nel 2022 all’aumento generale dei prezzi, oltre metà dei quali assorbiti da spese fisse per utenze domestiche. La sostenibilità finanziaria e il potere contrattuale dei mutuatari sono messi a dura prova dalla forbice spalancatasi tra salari e inflazione a doppia cifra. MutuiOnline riporta che negli ultimi 12 mesi l’importo medio del mutuo richiesto è già sceso da 141mila a 132mila euro, il loan to value è balzato dal 61,3 al 67,8%, la durata da 22 a 24 anni, le richieste per classi di reddito da 2.200 a 2.743 euro al mese, gli Euribor a 3 mesi da -0,5 a +2,4%, gli Eurirs da 0,5 a +2,5% sulla scadenza a 25 anni. La minore liquidità costringe a finanziamenti percentualmente più elevati.
In sintesi: più reddito, più denaro in prestito e indebitamento più lungo per immobili che valgono meno. Un new normal, com’è stato definito, da cui difficilmente si tornerà indietro: nonostante le avvisaglie di una riduzione dell’indice dei prezzi e dei tassi durante il 2023, il contesto generale non potrà comunque cambiare dall’oggi al domani. E’ finita l’era dei tassi ultrabassi: “Scenderanno molto più lentamente rispetto al ritmo con cui stanno salendo – dice Simone Capecchi, executive director di Crif -. Ci aspettiamo una domanda ancora in contrazione, il cui calo però sarà mitigato dagli incentivi governativi sul triplo fronte giovani, ristrutturazione e risparmio energetico“. Il riferimento è all’esenzione dalle imposte di registro, ipotecaria e catastale della prima casa per gli under36 con Isee fino a 40mila euro; la detrazione Irpef del 50% dell’Iva per le “case green”; il Fondo di solidarietà Gasparrini per la sospensione e quello di garanzia Consap; e altre agevolazioni come il sismabonus e il bonus 50% per edifici ristrutturati.
Sgravi che, però, presuppongono quasi sempre l’anticipo dei soldi da parte dell’acquirente o la capacità, appunto, di ottenere un finanziamento da una banca. Il che ci riporta al problema principe. Anche per le banche non sono tutti fiori: hanno fatto abbondante ricorso ai prestiti agevolati della Bce, tramite lo strumento non convenzionale dei fondi Tltro, ma queste aste quadriennali scadranno ormai a cavallo del 2024. Parliamo di circa 415 miliardi da restituire a Francoforte, più 40-50 miliardi di titoli obbligazionari emessi. Le misure come il quantitative easing stanno venendo meno, il costo del debito degli istituti salirà, rifinanziarsi diventerà sempre più oneroso ed è inevitabile che l’extra costo sia trasferito sulla clientela. Risultato: alzeranno necessariamente le remunerazioni dei nuovi prestiti, che dovranno ripagare agli investitori.
Lato consumatori, resta la possibilità della rinegoziazione del mutuo a tasso fisso, che la manovra rende obbligatoria per le banche se l’importo originario non supera i 200mila euro, la sottoscrizione riguarda acquisto o ristrutturazione di una abitazione, e il cliente è in regola con le rate e non oltrepassa i 35mila euro di Isee. Ad esempio, chi ha contratto 2 anni fa un mutuo a 30 anni dovrebbe calcolare il nuovo tasso sui 28 anni rimanenti e prendere a riferimento l’Irs a 25 anni, attualmente al 2,33%, a cui aggiungere lo spread determinato al momento della stipula per arrivare a una percentuale inferiore al 5-6% a cui potrebbero spingersi. Un’operazione, in verità, già possibile sia con la stessa banca che con la surroga. Inoltre non è detto che il passaggio al fisso abbassi automaticamente la rata: anche se nel calcolo del piano di ammortamento lo spread resta lo stesso del mutuo a tasso variabile, ciò che si ottiene è solo la certezza di pagare la stessa cifra mensile fino a estinzione o nuova rinegoziazione. Il governo starebbe valutando un apposito fondo che garantisca il ristoro del differenziale col variabile.